Dalla luna tutto appare diverso
13 05 2004 - 11:20 · Flavio Grassi
«Io però non ho mai capito perché una decapitazione è peggio di una pallottola in testa» ha scritto ieri Delio commentando il mio momento di pessimismo cosmico. È uno spunto di riflessione serio, che non si può liquidare aggiungendo due righe di risposta al thread. Vediamo se riesco a mettere in fila i pensieri che mi svolazzano in testa senza essere troppo noioso.
Intanto identifichiamo bene di che cosa stiamo parlando. Enrica ha fatto osservare che un certo tipo di decapitazione—la ghigliottina, per intenderci—può anche essere inteso come «esecuzione compassionevole». Vero, in parte. Un’altra volta magari torniamo sul perché penso che sia vero solo in parte. Per il momento diciamo che dal punto di vista dell’ucciso è così: in epoca di tecnologia limitata, la decollazione veloce poteva anche essere interpretata come una forma di uccisione giudiziaria che minimizzasse la sofferenza. Ma l’uccisione di Nick Berg è stata tutto tranne che un’esecuzione veloce.
Qui abbiamo il primo livello dell’orrore che ci ispirano quelle immagini: il pensiero della sofferenza infinita provocata da quel coltellaccio che scava nella gola per un tempo eterno. Più che la morte, che a quel punto è una liberazione, ci angoscia l’empatia impossibile, la spinta a interiorizzare un dolore che non potrà mai essere raccontato perché nessuno di noi può averlo provato e chiunque lo provi, dopo non lo può raccontare. Ma questa è la stessa angoscia paradossale che proviamo di fronte a qualsiasi morte lenta e dolorosa: in sé non è diversa da quella che ci ispira la sorte delle persone intrappolate sotto un edificio crollato, per esempio. Questa componente è presente nell’uccisione di Nick Berg, ma non è il suo specifico.
L’orrore specifico di quello sgozzamento seguito dalla decapitazione e dall’esibizione della testa come trofeo è la profondità arcaica della sua carica simbolica. A modo suo la pallottola in testa è un gesto razionale. È una esecuzione, una soluzione pragmatica per il problema di eliminare una persona. È un’azione «fredda». Oppure, al contrario, è il risultato di una furia improvvisa, dello scatto istantaneo che acceca. Sono entrambe cose che riusciamo in qualche modo a digerire. Le possiamo condannare ma ne conosciamo i meccanismi perché li viviamo ogni giorno. Anche se di solito non andiamo in giro a sparare in testa alla gente sappiamo cosa vuol dire il desiderio di non aver più intorno qualcuno, sappiamo cosa vuol dire compiere un gesto dettato dalla collera (che per le persone normali magari è solo lasciarsi sfuggire una parola che dopo si vorrebbe non aver detto).
La decapitazione di cui stiamo parlando è altro da tutto questo. È del tutto irrazionale perché è una uccisione lenta, faticosa. Proprio perché è così lenta e faticosa, la sua irrazionalità non è quella dello scatto d’ira. Questo è un atto deliberato e sostenuto nel tempo, ma la volontà che lo determina parte da un livello di pensiero antico, il pensiero magico-simbolico che noi abbiamo rimosso ma che continua a far sentire la sua presenza in maniera sempre più invadente.
Lo sgozzamento di Nick Berg, è già stato scritto, è un sacrificio rituale. Ma non è solo quello. Manipolare il cadavere del nemico, impossessarsi di parti del suo corpo—e in particolare della testa—come trofeo, sono i gesti della guerra primitiva. Ci sono passati tutti i popoli. La testa è la sede dell’individualità: issare la testa del nemico ucciso sulla punta della picca è il trionfo feroce del guerriero arcaico. Più in fondo c’è solo l’impossessarsi finale del nemico ucciso assimilando il suo corpo dentro di sé come cibo. È quello che nel ciclo tebano fa Tideo che, mortalmente ferito, succhia il cervello dalla testa mozzata del suo nemico Melanippo. Tideo era figlio del più antico e feroce degli dei: Ares, il dio della guerra primordiale. E con quel gesto regressivo si condanna a morte perché la sua protettrice Atena—dea guerriera ma espressione di una visione più moderna, funzionale, della guerra—che era corsa a salvarlo, lo vede, inorridisce e lo abbandona al suo destino.
La decapitazione, quella decapitazione, ci fa più orrore di una uccisione qualsiasi perché è il ritorno fra noi di Tideo, della ferocia senza confini dei guerrieri antichi. Abbiamo impiegato millenni a esorcizzarla e ora eccola qui di fronte a noi. Badate bene, il nostro averla esorcizzata non vuol dire che fosse scomparsa dal mondo: pensate «Ruanda» e capirete cosa intendo. Ma finora si trattava di guerre che sentivamo come estranee a noi: «selvaggi che si ammazzano fra di loro» era il sentimento più o meno confessato di fronte a quegli orrori. Questo invade di prepotenza la nostra vita tecnologica. Mette i piedi nel piatto della «guerra leggera», fatta con i «bombardamenti chirurgici» delle «bombe intelligenti» e ci affronta sfacciatamente sbattendoci davanti il suo urlo primordiale attraverso la nostra tecnologia digitale, la comunicazione globale, l’ubiquità che ci siamo conquistati per via informatica.
La decapitazione, quella decapitazione, ci fa più orrore perché è un segno dell’abisso di antichità scura e puzzolente di «atro sangue» in cui è sprofondata quella che si voleva «guerra pulita». Le torture ci avevano fatto rimbalzare al Medioevo. Con questo la macchina del tempo arriva molto più lontano, e non sappiamo quanto ancora correrà prima che si riesca a fermarla per tentare di tornare indietro.
Devo chiudere qui, per ora. Con una avvertenza: chi solo provasse a pensare «ecco anche lui dice che quelli sono dei selvaggi da annientare» sarebbe un poveraccio che merita solo pietà. La regressione di cui stiamo parlando non viene da un pianeta sconosciuto, nasce all’interno della nostra modernità, perché il Tideo Zarkawi non è fuori, è dentro: completamente immerso nella civiltà che crede di combattere.
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